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Se gli equilibri geopolitici frenano la transizione green
Se gli equilibri geopolitici frenano la transizione green
12 dicembre 2023#WeeklyWatch

Se gli equilibri geopolitici frenano la transizione green

Dimezzare le emissioni in 7 anni sembra sempre più una chimera tra gli alti tassi, l’inflazione che continua a mordere, le resistenze delle case auto e i focolai di guerra che accendono i riflettori su altre priorità. Per questo la bozza di accordo della Cop 28 ha tutte le sembianze di un test politico. In attesa delle determinanti elezioni Usa

Si sa, nell’era del tempo accelerato e dell’informazione commodity l’effetto shock delle notizie passa in fretta. Ma il fatto che il 17 novembre scorso (solo tre settimane fa) la temperatura media globale della superficie terrestre abbia superato per la prima volta di oltre 2°C la media dell’era preindustriale, oltrepassando la soglia massima prevista dall’accordo di Parigi del 2015, non poteva non tenere banco alla 28ª conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP 28) negli Emirati Arabi Uniti.

Soprattutto alla luce del fatto che l’Intergovernmental Panel on Climate Change, (Ipcc, Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico) il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici, ha stimato a marzo che le emissioni di carbonio prodotte dall’uomo (cosiddette emissioni “antropiche”) devono diminuire del 45% entro il 2030, rispetto ai livelli del 2010, per limitare l'aumento della temperatura media globale a 1,5°C rispetto ai target preindustriali.

Le sfide di COP 28 e l'incognita rinnovabili

Un obiettivo – quello di dimezzare le emissioni in sette anni - che pare sempre più una chimera alla luce del fatto che le emanazioni di anidride carbonica sono in continuo aumento e che la Cop 28 avrebbe licenziato una nuova bozza di accordo che sembra più una formula politica per testare le reazioni delle parti che un’intesa di sostanza. Ciò è anche una conseguenza del percorso accidentato per la produzione di energia pulita. Ad esempio, i costi dei materiali e la spesa per interessi dei produttori di energia eolica offshore (ovvero dell’eolico in mare aperto) sono cresciuti. Le reti elettriche non ammodernate stanno limitando la diffusione delle energie rinnovabili, e i progressi nello sviluppo di carburanti sostenibili per l'aviazione e di alternative alle batterie agli ioni di litio sono lenti.

In aggiunta il comparto delle rinnovabili sta d’altronde diventando maturo. E dunque la concorrenza del settore abbassa i margini per le aziende. Persistono oggettive difficoltà di immagazzinamento dei materiali e si osserva un’inefficienza generale del sistema nel mettere a terra i progetti. Per questo l’impatto non può che trasferirsi sulla finanza, che sconta in anticipo i cambiamenti.

La bolla dell'auto elettrica, i Governi e il costo del denaro

La bolla dell’auto elettrica sembra definitivamente scoppiata. Gli investitori e le case automobilistiche stanno cercando di capire quale sarà il futuro dei veicoli green dopo un rallentamento del tasso di crescita che viene imputato a diversi fattori tra cui l'aumento dei tassi di interesse e i costi elevati della tecnologia per produrli. Complessivamente, negli ultimi due anni sono stati spazzati via circa 1.400 miliardi di dollari di valore di mercato. La forte svalutazione è dovuta al fatto che la crescita sembra rallentare. General Motors e Ford hanno entrambe ritardato gli investimenti per i veicoli elettrici e posticipato gli obiettivi di vendita.

Non solo. L'inflazione globale, il conseguente aumento del costo della vita e gli elevati livelli di debito pubblico hanno reso il cambiamento climatico un argomento divisivo per la politica internazionale. E mentre la coscienza collettiva rimane alta sul tema ambientale – complici anche le recenti calamità naturali - ci sono contingenze economiche che alterano le priorità. Per queste ragioni il 2024 si presenta come l’anno degli interrogativi.

Anche i governi inglese e canadese stanno rallentando sulla decarbonizzazione. La linea di faglia dei conflitti militari tra i due blocchi amplifica la diffidenza. Il rinverdirsi del focolaio in Terra Santa, dopo la guerra di trincea in Ucraina, segnala che il mondo rischia di non poter prendere di petto, come dovrebbe, la sfida che tutti abbiamo davanti. Le minacce economiche si intersecano con quelle geopolitiche e ambientali. E si trasferiscono sui mercati finanziari. Così cominciano ad attribuire prezzi più ragionevoli ai titoli green. Uno degli indici più liquidi, l'Exchange Traded Fund (ETF), è l’iShares Global Clean Energy, un fondo gestito da BlackRock.  Replica l’andamento di un paniere di circa 100 aziende del settore delle energie rinnovabili. Le quotazioni sono in caduta del 34% da inizio anno. Lo stesso indice azionario americano più importante, S&P 500, ha fatto segnare una crescita del 16%, in distonia evidente col precedente. Anche le emissioni di obbligazioni private legate alle energie pulite hanno subito una flessione. Nel 2021 erano stati emessi sul mercato bond per 608 miliardi, nel 2022 si è scesi a 541 miliardi di dollari e il 2023 chiuderà attorno ai 510 miliardi. Le società di idrocarburi, al contrario, hanno fatto segnare nel 2022 e 2023 profitti da record. La grande liquidità a disposizione dei colossi del petrolio ha finito per favorire le fusioni. Chevron ed Exxon hanno comprato concorrenti per decine di miliardi di dollari.

Pesa poi il costo del denaro: molti investimenti sono stati decisi in tempi in cui i tassi di interesse erano vicini allo zero. Il caso della francese Engie è emblematico: sul mercato Usa è stata costretta ad aumentare i prezzi del 50% nella vendita di energia per sopperire alle nuove condizioni. E poi le strozzature sulle catene di fornitura. Alcuni materiali indispensabili alla transizione ecologica sono aumentati di prezzo, ma si fa anche fatica a reperirli. La Cina produce da sola il 33% di Co2, il 12,5% gli Stati Uniti. Pechino ha cominciato a fare sul serio, però così controlla a monte l’intera filiera delle rinnovabili, una leva geopolitica che preoccupa il blocco Usa-Europa. Secondo le stime del think tank finlandese Crea, le rinnovabili installate dalla Repubblica Popolare genereranno nel 2023 oltre 400 Terawattora l’anno, più del fabbisogno della Francia, con 200 Gigawatt di solo solare, il doppio della potenza operativa negli Stati Uniti. L’altro tema urgente viene segnalato dall’ultimo report dell’Ispi. Riguarda gli investimenti nei Paesi in via di sviluppo: servono entro il 2030 circa 2.400 miliardi l’anno per decarbonizzare queste economie. Soldi che dipendono anche dalle scelte di organismi internazionali come la Banca Mondiale. Sebbene i finanziamenti per il clima forniti ai Paesi emergenti siano aumentati nel 2021 fino a raggiungere 89,6 miliardi di dollari, non sono ancora riusciti a soddisfare l’impegno di 100 miliardi all’anno. I deficit di bilancio in tutto il mondo sono aumentati notevolmente durante la pandemia, poiché i governi hanno agito come “assicuratori di ultima istanza”.

Il debito pubblico

Nel 2020 i deficit pubblici sono stati in media superiori al 20% del PIL nelle economie avanzate. Di conseguenza, il debito pubblico ha raggiunto nuovi massimi in molti Paesi, con una media superiore al 100% nelle economie avanzate. Per questo la domanda diventa una: i governi possono permettersi questo tipo di transizione?

L’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti ha impegnato 391 trilioni di dollari in un decennio. Rispettare questi impegni in un contesto di spazio fiscale limitato e di preoccupazioni sulla sostenibilità del debito pubblico sarà impegnativo. E il 2024, non dimentichiamo, è l’anno delle presidenziali Usa con la probabile sfida tra Trump e Biden. Da chi la spunterà dipenderà la capacità (e le ambizioni) di riduzione delle emissioni degli Stati Uniti. La preoccupazione per la crisi climatica non dovrebbe essere un tema polarizzante ma negli Usa lo è. E le imminenti elezioni americane saranno un deciso spartiacque nella soluzione del puzzle Esg.

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